martedì 28 marzo 2006

La macchina da cucire Singer

La macchina da cucire Singer sferragliava rumorosamente come un locomotore a vapore e, dalla mia prospettiva di osservazione, sembrava veramente un ingranaggio del locomotore; con la sola differenza che invece di avanzare in un binario il locomotore rimaneva immobile nel tinello della casa.
Io giocavo sul pavimento nelle vicinanze dei piedi di mamma Salvina; piedi che, con grande regolarità, azionavano il pedale che alimentava il moto della ruota che a sua volta determinava il movimento in su e in giù dell'ago. Ma quello che accadeva al livello superiore, dove il cucito si componeva, non faceva parte del mio mondo.
Il mio ricordo dev'essere legato ad una giornata d'inverno: fuori il buio precoce del pomeriggio; dentro la stufetta elettrica a parabola con la resistenza infuocata dal calore e una sensazione di caldo esagerato che arrivava riflesso dal pavimento, ma limitato alla ristretta zona del cono di irraggiamento; i soldatini disposti staticamente in due eserciti schierati uno in fronte all'altro che combattevano l'ennesima battaglia le cui sorti erano già scritte nella mia mente.
La mamma cuciva per conto di una sartoria da uomo ed era specializzata in pantaloni. Li produceva con una rapidità incredibile, anche perché la sua paga era a cottimo. Anche quelli che indossavo io erano il risultato del suo lavoro. Mi portava dal sarto a prendere le misure: "fermo Enzo"... "su con la testa"... "non gonfiare la pancia"..."sei proprio un ometto".
Passavano in fretta le ore dei pomeriggi in quell'ambiente rassicurante, circondato da pezzetti di stoffa blu, grigi e "avana" che riempivano il mio campo di battaglia; da fili bianchi per imbastire le cuciture che aderivano ai miei calzoni come una calamita; dove aghi e spilli sfuggiti al controllo, ogni tanto, mi pungevano un braccio o una gamba.
La ricordo anche canticchiare canzoni (senz'altro degli anni sessanta) come Papaveri e papere, La casetta in Canada, Carissimo Pinocchio, Le mille bolle blu. Cantava senza timore per la sua poca intonazione e io la ascoltavo volentieri.
La macchina da cucire Singer, stava lì inconsapevole testimone di un legame che si alimentava in ristretti spazi condivisi e lunghi tempi trascorsi insieme.

(*** aggiornato 21/11/2013)

martedì 21 marzo 2006

Si gioca per vincere

Si gioca per vincere.
E' un concetto che fin da piccolo era fissato nella mia mente. Soprattutto allora perdere era insopportabile, qualunque fosse il gioco, chiunque fosse l'avversario.
Si giocava con le figurine o con le biglie, con i tappi rovesciati delle bottiglie che diventavano ora ciclisti ora calciatori ora macchine di formula uno; più avanti si giocava a rubamazzetto o a scopa, a dama o a scacchi; e ancora a pallone, a cannette, a calciobalilla,
ma comunque l'obiettivo era vincere e una invisibile velatura ottenebrava i miei occhi quando non era possibile raggiungere questo scopo. Lo stesso senso di sconforto lo provavo anche se l'avversario era un adulto.

Per esempio giocare a dama con papà era frustrante, mi faceva fuori con un solo colpo fino a tre o quattro pedine e irrimediabilmente ero destinato a chiudere la partita in poche battute.
Dicono gli esperti che il gioco è una palestra di vita attraverso la quale si sperimentano comportamenti e limiti, ci si allena a controllare l'aggressività , a gestire vittorie e sconfitte.
Non lo dubito, ma io allora dovrei aver imparato molto!
In realtà mi sembra di aver elaborato una sorta di inconsapevole rivalsa, la convinzione che non bisogna mai "lasciar" vincere perchè bisogna conquistarsi questa capacità giorno per giorno.
Questa idea me la sono portata avanti anche da genitore e quando i miei figli erano piccoli ho adottato la stessa strategia. Mai "lasciarli" vincere finchè non ne fossero stati realmente capaci.
Così sono andate le cose a "braccio di ferro", a subbuteo, con i giochi di carte e con i videogiochi (su questo campo sono stato superato ben presto...).
Come per tanti altri argomenti oggi agirei diversamente!
Mi sento pentito di aver loro fatto provare la stessa frustrazione che provavo da piccolo, pentito perchè, pur non arrivando all'eccesso di quei genitori che fanno carte false pur di far vincere sempre i propri figli, avrei potuto, qualche volta, perdere in modo discreto e, penso, che questo avrebbe accresciuto la fiducia in se stessi.
Quando un giorno sarò nonno, conto di rifarmi; Si cambia!

In rete c'è parecchio materiale su questo argomento io ho letto:

paragrafi :
- IL GIOCO
- L’AGGRESSIVITA’ COMPETITIVA (AGONISMO)

giovedì 16 marzo 2006

Matrix, il controllore.

Matrix, il film dei fratelli Wachowski è uscito nel 1999.

Credo che siano stati digitati chilometri di bit su questo tema.
Ma io non desidero parlare degli effetti speciali del film, sarebbe un po’ tardivo; né addentrarmi nella filosofia della virtualità e realtà; né tanto meno nella fantascienza.
Di Neo, il protagonista, mi interessa la sua capacità di “cambiare”.
Da uomo schiavo a uomo libero.
Neo è schiavo di Matrix, metafora di chi vive braccato e imprigionato dalle proiezioni che la sua stessa mente tesse giorno dopo giorno come la rete di una ragnatela, fino a ingabbiarlo.
Un Controllore, spietato, alberga nella sua mente, un super-io che lo costringe a vivere vittima di una realtà deformata, filtrata, scomposta e ricostruita secondo modelli precostituiti.
Neo ha paura di se stesso, dei propri impulsi, forse pensa che senza questo "controllo" potrebbe svelarsi come un mostro.
Morpheus invece rappresenta la parte di sé che percepisce il disagio e lancia messaggi di liberazione.
Morpheus è il mediatore che gli permette di avviare un lungo pericoloso viaggio alla ricerca di una verità oggettiva su di sé.
Quello di Neo è un percorso psicoanalitico, è una ricerca affascinante, anche se a volte faticosa e dolorosa, di una verità a lui nascosta da illusioni e proiezioni.
Neo ce la fa!

Nell’ultima scena, dopo il distacco dal suo Controllore, il mondo virtuale si scompone e si dissolve rivelando quello reale…

…che non è quello angosciante del campo coltivato a “uomini” per succhiarne l'energia, ma è identico al precedente nell’aspetto, identico nelle persone, identico nella sequenza con cui si succedono gli avvenimenti, identico nelle emozioni, identico nei valori a cui si crede veramente.

La liberazione di Neo è tutta interiore.

Ho letto da qualche parte nella rete l’intervento di un esperto (Quirino Zangrilli): “Pochissimi individui, dopo migliaia di ore di analisi ed anni di metabolizzazione, riescono ad intravedere il mondo oltre lo schermo proiettivo del proprio Matrix”.



Per rivivere, per qualche istante, l’atmosfera del film riporto il dialogo del primo incontro tra Neo e Morpheus.
Morpheus: Immagino che in questo momento ti sentirai un po' come Alice che ruzzola nella tana del Bianconiglio.
Neo: L'esempio calza.
Morpheus: Lo leggo nei tuoi occhi: hai lo sguardo di un uomo che accetta quello che vede solo perché aspetta di risvegliarsi. E curiosamente non sei lontano dalla verità. Tu credi nel destino, Neo?
Neo: No.
Morpheus: Perché no?
Neo: Perché non mi piace l'idea di non poter gestire la mia vita.
Morpheus: Capisco perfettamente ciò che intendi. Adesso ti dico perché sei qui. Sei qui perché intuisci qualcosa che non riesci a spiegarti. Senti solo che c'è. È tutta la vita che hai la sensazione che ci sia qualcosa che non quadra nel mondo. Non sai bene di che si tratta, ma l'avverti. È un chiodo fisso nel cervello, da diventarci matto. È questa sensazione che ti ha portato da me. Tu sai di cosa sto parlando...
Neo: Di Matrix.
Morpheus: Ti interessa sapere di che si tratta, che cos'è? Matrix è ovunque, è intorno a noi, anche adesso nella stanza in cui siamo. È quello che vedi quando ti affacci alla finestra o quando accendi il televisore. L'avverti quando vai al lavoro, quando vai in chiesa, quando paghi le tasse. È il mondo che ti è stato messo dinanzi agli occhi, per nasconderti la verità.
Neo: Quale verità?
Morpheus: Che tu sei uno schiavo. Come tutti gli altri sei nato in catene, sei nato in una prigione che non ha sbarre, che non ha mura, che non ha odore, una prigione per la tua mente. Nessuno di noi è in grado purtroppo di descrivere Matrix agli altri. Dovrai scoprire con i tuoi occhi che cos'è. È la tua ultima occasione: se rinunci, non ne avrai altre. Pillola azzurra: fine della storia. Domani ti sveglierai in camera tua e crederai a quello che vorrai. Pillola rossa: resti nel paese delle meraviglie e vedrai quanto è profonda la tana del Bianconiglio. Ti sto offrendo solo la verità, ricordalo. Niente di più.
(....)
Morpheus: Benvenuto nel mondo vero.
Neo : Sono morto, vero?
Morpheus: Tutto l'opposto.

mercoledì 15 marzo 2006

Un granello di sabbia

da "La storia Infinita" di Michael Ende

"Perchè è così buio, Fiordiluna?" domandò.
"Il principio è sempre buio, Bastiano mio."
...
Lui tese la mano e sentì che qualcosa gli si posava sul palmo aperto. Qualcosa di piccolissimo ma greve da cui emanava una sensazione di gelo.
"Che cos'è, Fiordiluna?"
"Un granello di sabbia", rispose lei. "E' tutto ciò che è rimasto del mio Regno. Te lo regalo"
"Grazie", mormorò Bastiano stupito. Non sapeva davvero che cosa avrebbe potuto farsene di quel dono.
Mentre stava ancora chiedendosi che cosa Fiordiluna si aspettasse da lui, avvertì d'un tratto un lievissimo pizzicore sul palmo della mano. Osservò attentamente.
"Guarda, Fiordiluna!" sussurrò. "Comincia a luccicare. E' un germoglio! non è un granello di sabbia! E' un seme luminoso che comincia a germogliare!"

Il mondo di Fantasia si era ridotto ad un unico minuscolo granello di sabbia. Bastiano è chiamato a ricostruire l'intero Regno e lo farà con la sua fantasia partendo da quel frammento, guidato e accompagnato da Fiordiluna.


E' una metafora che si adatta molto bene a descrivere un grande cambiamento.

Dedicato a chi non passa nella vita "di trionfo in trionfo" e almeno una volta si è ritrovato col sedere per terra, in mano un solo granello, l'ultimo.


Uscirne fuori non è un atto di forza, nè uno sforzo di volontà, è un cammino lungo e tenace al fianco di Fiordiluna.


sabato 11 marzo 2006

La bottega del falegname

Stamattina, facendo una passeggiata, sono passato davanti ad una delle falegnamerie in cui aveva lavorato papà Toledo.
La fantasia era di bussare e vedere se per caso lui fosse lì a completare qualche lavoro urgente. Ma non solo papà non c'è più ma anche quel laboratorio di falegnameria sembrava irrimediabilmente chiuso.
Peccato, avrei volentieri annusato l'ambiente.
Sì, perchè il ricordo più vivo è proprio legato all'odore.
Qui viene il difficile, perchè la tecnologia non ha ancora inventato un "Insert smell", il che mi eviterebbe di cimentarmi con la difficile impresa di evocare la sensazione dell'odore del legno.

Non è come odorare un mobile già confezionato; è l'aroma intenso che proviene dai trucioli che si accumulano per terra sotto i macchinari che servono a modellare il legno. Ce n'erano di tutti i tipi: larghi, lunghi, sottili, chiari, marroncini, friabili, grassocci.
E' il profumo che emana la polvere di segatura che rimane in sospensione nell'aria e che i raggi di sole filtrando dall'esterno rendono visibili come volute di fumo. E' il gradevole senso di ebrezza che dà l'annusare una tavola di noce o di pichpain appena tagliata, dove senti ancora la linfa viva della pianta. E' quello altrettanto intrigante della bianca colla che veniva splamata con meticolosità in tutti gli incastri, prima di assestare con pochi e precisi colpi, i lunghi chiodi. Se non fosse stato per l'odore me la sarei mangiata quella colla, aveva la stessa consistenza del "biancomangiare" che preparava la mamma.
Poi c'erano gli odori che facevano scappare via, quelli della sezione vernici: gli impregnanti, gli ingrassanti, i coloranti, gli oli minerali, che ti prendevano alla gola e ti stordivano.

Le macchine che servivano a lavorare il legno, nei miei ricordi di bambino, esercitavano un'altra forte attrattiva, ma in questo caso la prudenza di papà era severa: dovevo tenermi lontano perchè non c'erano protezioni.
"Vedi" mi diceva, e mi mostrava il dito pollice dove mancava un angolo, risultato di un piccolo incidente.
"Lo zio Pinuzzo, ci ha perso tre dita con una sega circolare come questa, il problema sono i nodi" e ancora mi mostrava una tavola di legno dal colore pallido dove nel bel mezzo appariva una grossa macchia scura che mi ricordava il neo della mia faccia.
"Quando la lama, ne incontra uno devi essere pronto, perchè le dita sono a pochi millimetri dal taglio, basta uno scarto minimo e invece del legno, zac, via il dito!".

La passeggiata continua, il portone verde, un po' sgangherato, e la finestrella, che dava luce al seminterrato rimangono alle mie spalle; il sole stamani è generoso, scalda la mattina di marzo; c'è ancora il tempo per fissare qualche raggio sul viso e il passato nella mia mente.


Link:
La natura del legno
Il legno

venerdì 10 marzo 2006

Alice nel paese delle meraviglie (parte 2)

Continuo con la seconda parte di Alice nel paese delle meraviglie





Alice sospirò seccata, e disse:"Credo che potresti fare qualcosa di meglio piuttosto che perdere tempo, proponendo indovinelli senza senso."
"Se tu conoscessi il tempo come lo conosco io, - rispose il Cappellaio, - non diresti che lo perdiamo."
"Non capisco che cosa tu voglia dire!" osservò Alice.
"Certo che non lo capisci! - disse il Cappellaio, scuotendo il capo con aria di disprezzo - Scommetto che tu non hai mai parlato col tempo."
"Forse no, - rispose prudentemente Alice - ma so che debbo battere il tempo quando studio la musica."
"Ahi, adesso si spiega, - disse il Cappellaio. - Il tempo non vuol essere battuto. Se tu fossi in buon rapporti con lui, farebbe dell'orologio ciò che tu vuoi.


(Ahimè anch’io batto il tempo e mi preoccupo di non perderlo!)


"Vuoi forse ancora un po' di the?" chiese la Lepre "Te lo verso?".
"Ma finora non ne hai versato proprio per niente!" rispose Alice piuttosto seccata.
"Vuoi dire che non ne puoi prendere meno. - disse il Cappellaio - "E' molto più facile prenderne più di nulla che meno di nulla."

E in un altro punto poi….

"Se io sarò un giorno Duchessa - disse a se stessa - non vorrò nemmeno un granello di pepe nella mia cucina. Per il troppo pepe, uno diventa pepato, così come per il
troppo aceto, uno diventa acido e per la troppa camomilla uno diventa amaro.


(Mi ricordano quelle sagge storie orientali sul nulla e sul vuoto di sé, sulla capacità di apprezzare le piccole cose, sull’elogio della moderazione)


E la morale è questa:"Sii ciò che vuoi parere o, se vuoi che te la dica più semplicemente:"Non credere mai d'essere diversa da quella che appari agli altri di esser o d'esser stata, o che tu possa essere, e l'essere non è altro che l'essere di quell'essere ch'è l'essere dell'essere, e non diversamente."
"Penso - si scusò Alice - che capirei meglio se vedessi scritto quello che ha detto. Ho una tale confusione in testa!". "Questo è nulla rispetto a quel che potrei dire, se ne avessi voglia" aggiunse la Duchessa.


(Naturalmente non significa niente, la Duchessa trovava la morale in tutto, ma quando è il momento bisogna dismettere i panni dell’intellettuale. C’è una cosa bellissima che mi dice MariaTeresa: “La cosa più bella che mi piace fare con te è ridere”. Sono cosciente di non farlo abbastanza ma ci posso provare).



"Tagliatele la testa!" urlò la Regina con quanta voce aveva.
Ma nessuno si mosse.
“Ma piantala Chi credi di essere?" - disse Alice, (era cresciuta fino alla sua statura naturale.) - Tu non sei altro che la Regina d'un mazzo di carte."


(quando si ha consapevolezza delle proprie dimensioni, delle proprie risorse interiori, non c’è “regina di cuore” che possa spaventare più di tanto. “Ma piantala. Chi credi d’essere?")

"Oh! - si meravigliò Alice, - sono di nuovo qui con te. Sai, ho fatto un sogno, un sogno strano, ma meraviglioso." E si mise a raccontare alla sorella, come meglio poteva, le avventure che aveva vissuto in sogno.
Quando ebbe finito, la sorella la baciò e le disse:"Hai proprio fatto uno strano sogno, sai! Ma ora, presto, a casa, va subito a prendere il the, è già tardi." Alice si allontanò correndo verso casa, tutta immersa ancora nel suo meraviglioso sogno.


(E’ quello che capita a me con i sogni, per questo li racconto nel mio blog)

Alice nel paese delle meraviglie (parte 1)

Ho letto una versione on-line di Alice nel paese delle meraviglie (se qualcuno volesse emularmi c'è il link).
E' una bellissima favola nella quale sembrano essere nascosti tanti spunti per riflettere su se stessi.
Riporto, senza tante pretese, qualche frase e il mio commento.

(Per non appesantire troppo il post, pubblico in due parti)


"Smettila di piangere, - disse con forza a se stessa - è inutile. Ti consiglio di finirla, e subito anche!" I consigli che Alice era abituata a dare a se stessa erano in generale buoni (ma non sempre li seguiva...). A volte arrivava persino a sgridare se stessa sul serio.

(che bello sapersi dare dei buoni consigli...)

Ma Alice era ormai così abituata alle cose straordinarie che quelle ordinarie le sembravano noiose e stupide addirittura.

(qualche volta temo che capiti anche a me, ma non è una buona cosa; meglio sarebbe che le cose ordinarie apparissero nella loro straodinarietà)

Sono forse Ada ora? No, no, Ada ha tanti bei riccioli, e io non ne ho...Forse sono Mabel? No, no, quella non sa proprio niente, e io invece so un po' di tutto...E poi, lei è lei e io sono io...Ma, Santo Cielo! Chi ci capisce qualcosa? Vediamo un po' se mi raccapezzo...

(sembra una crisi di identità; mi ricorda l'età dell'adolescenza nella quale si sente il bisogno di staccarsi dalle certezze della famiglia e si è alla confusa ricerca di un proprio sè. Penso ai miei figli, e ricordo dolorosamente la mia.)

"Allora dovresti dirci che cosa pensi" continuò la Lepre. "Lo sto facendo. - si affrettò a rispondere Alice - Io penso ciò che dico. Pensare e dire fa lo stesso". "Eh, no cara. Se dici: Io vedo ciò che mangio o io mangio ciò che vedo, non è la stessa cosa", disse il Cappellaio.


(La mia considerazione su questo gioco di parole: non sempre è necessario dire ciò che si pensa e non sempre è necessario pensare ciò che si dice. Mi viene in mente quella frase del Vangelo “Semplici come colombe, prudenti come serpenti” Mt 10,16)

giovedì 9 marzo 2006

Mi leggi il tuo numero di telefono?

(Sogno del 7/3)

Il grande salone della casa si affacciava direttamente sul mare e allungando un braccio si sarebbe potuto stringere le mani delle persone che stavano tentando di ormeggiare lo yatch. Dall'altro lato le grandi finestre lasciavano un'ampia vista sulla strada che costeggiava il mare, sulle rocce frangiflutti, e oltre ancora sul mare che dominava senza ostacoli l'orizzonte.
Così, incantato e un po' imbambolato dal grigiore uniforme del cielo, impiegai un po' di tempo a prendere coscienza che il mare si stava gonfiando. Con un incedere lento ma inesorabile come un blob, aveva già invaso la stretta striscia della passeggiata.
Lo fissai un po' affascinato. Poi ricordi di sciagure apocalittiche viste in televisione, e subito la fuga verso le strade interne del borgo, oltre gli stretti vicoli, oltre le piazzette che si aprivano improvvise; a fianco di gente che correva nella stessa direzione come un colorato rio controccorrente che risaliva dal mare ai monti, che di momento in momento si ingrossava, si affollava, si divideva e si ricomponeva.
Infine mi fermai ai bordi di una grande piazza. Ecco, eravamo sufficientemente lontani dal pericolo, potevo guardare indietro, scrutare oltre le teste se l'onda si era placata o no, potevo guardarmi intorno e controllare se tutti quelli che erano scappati con me fossero in salvo.
"Manca tuo fratello" dissi a mia moglie, ancora ansimante per la corsa. Lei si girò e d'impulso fece per tornare indietro a cercarlo; l'istinto le diceva di fare qualunque cosa per salvarlo. La bloccai: "Non è possibile sarebbe pericoloso per te, meglio telefonargli".
Purtroppo non riuscivo a leggere nè il tastierino nè il display del cellulare perchè nella fretta ero scappato senza gli occhiali.
Mi rivolsi alla persona accanto a me; era proprio il fratello di mia moglie, ma senza rendermi conto dell'assurdità gli dissi: "Mi leggi il tuo numero di telefono? Devo telefonarti per vedere come stai, se ti sei messo in salvo".
Lui me lo dettò, come se nella mia richiesta non ci fosse niente di strano: "5KZ183Y".
Provai a digitarlo: "5ZK..., no!"
Glielo feci ripetere: "5KZ183Y",
Ritentai: "5KZ83Y..."
Era un numero che per tanti sforzi facessi non riuscivo a scrivere.

lunedì 6 marzo 2006

Caleidoscopio

Il Caleidoscopio è un oggetto affascinante, ed ha molto a che fare con il "come si cambia".

La parola fa riferimento alla lingua greca, e significa, come è ovvio, "oggetto che permette di vedere belle forme."

Tecnicamente il caleidoscopio è uno strumento che si serve di specchi e pezzetti di vetro colorati per creare infinite strutture simmetriche.

Da piccolo, quando mi capitava di avere uno di quei tubi magici fra le mani, avrei passato delle ore, con un occhio chiuso e l'altro spalancato, a contemplare quel lento cambiamento delle immagini.

Una finestra su un universo di fantasia mai uguale, mai fermo.

Un Poi che pur essendo parente stretto del prima e del dopo,, diventa qualcosa di completamente nuovo.

Immagini senza luogo e senza tempo dove si creano paesaggi nei quali lo spazio e il tempo ti appartengono, come in un sogno colorato.

E' il paradiso della creatività, ma anche il navigare in acque tranquille, mossi da una brezza.









Se a qualcuno e venuta voglia di provare Click Qui o sulla parola Caleidoscopio; non posso assicurare gli stessi risultati, manca l'effetto "universo", ma ci si può provare, senza fretta.

venerdì 3 marzo 2006

Come si forma un ghiacciaio

Adesso provo a spiegare come si crea un ghiacciaio.

I fiocchi di neve che cadono dal cielo sono composti al 90% di aria.
Man mano che la neve si accumula, sprofonda più in basso, la compressione degli strati superiori provoca l'espulsione dell'aria e rende il fiocco sempre più piccolo.
La neve sempre più simile a un granulo può compattarsi e addensarsi (basta pensare per paragone a uno strato di pietre o di sabbia).
Inoltre subentra un'altro fenomeno: la neve superficiale si scioglie (nella stagione calda) e una volta diventata acqua penetra negli interstizi, fra un granulo e l'altro, però man mano che scende si raffredda di nuovo e ghiaccia, rendendo lo strato sottostante sempre più compatto.
Così cresce un ghiacciaio in altezza e in estensione.
Per quanto a volte immenso, un ghiacciaio è pur sempre uno strato appoggiato al terreno sottostante e infatti non è statico, lentamente scivola a valle.

Perchè mi occupo di ghiacciai?

Perchè dopo aver studiato una lezione di scienze con Antonio, per quelle insonsabili e involontarie associazioni mi è venuto in mente il "come si cambia".

Istintivamente mi è sembrato un buon paragone, adatto a visualizzare il lavoro quotidiano che possiamo fare su noi stessi;
quello stratificarsi, giorno dopo giorno, di nuove risorse, di sicurezze interiori, di stima, di affetti, di donazione;
che poi sono gli elementi che costituiscono la personalità di ciascuno, la capacità di amare se stessi e gli altri.

Come quasi tutti i paragoni ha i suoi lati deboli e infatti l'ultima immagine è quella della mancanza di ancoraggio e di slittamento; senza contare che, putroppo, oggi succede il fenomeno inverso a quello descritto e a causa del surriscaldamento dell'atmosfera i ghiacciai si restringono e spariscono anzichè crescere o stabilizzarsi.

Mi serve un'immagine alternativa altrettanto forte e convincente da proporre a me stesso...

Qualcosa che mi riproponga ancora l'idea della stratificazione lenta e continua, ma che abbia una maggiore stabilità finale, che solo eventi veramente devastanti possa disgregare...

Non resta che rimanere nella geologia.

Le rocce sedimentarie sono il risultato finale di un processo di deposizione e compattazione di piccole particelle (soprattutto sui fondali marini o nelle profondità dei grandi laghi). Per questo il termine "sedimentarie", che deriva dal latino "sedimentum" e che significa deposto, si riferisce alla decantazione (o precipitazione) di materiale. Quando l'accumulo raggiunge un certo spessore, il materiale che si trova nella parte inferiore viene compattato dal peso dei sedimenti sovrastanti. Questi sedimenti possono anche venire cementati da sostanze minerali che precipitano chimicamente dalle acque che filtrano attraverso i minuscoli spazi (detti pori) esistenti tra i singoli granuli.

Ora che tutto è chiaro...basta consolidare questo processo anche dentro!

mercoledì 1 marzo 2006

Ho comprato un paio di sci

Capisco che in prima battuta non sembra una informazione molto interessante, ogni giorno si compra qualcosa e quasi ogni giorno si compra qualcosa di non essenziale, certamente gli sci fanno parte di questa categoria di beni.

D’accordo, ma il fatto è che mi sembra strano a 52 anni aver comprato il primo paio di sci e continuo ad interrogarmi sul perché ho preso questa decisione.
Per me la neve e i suoi accessori sono qualcosa di molto recente.

Intanto perché sono siciliano di un paese a ridosso del mare che come latitudine è più a sud di Tunisi. Poi perché la prima neve l’ho vista a Nervi quando andavo alle scuole elementari, e se le nevicate sono un evento raro per Genova, ancor di più lo sono in quella sua delegazione. Infine perché le vacanze in montagna estive o invernali non facevano parte della cultura della mia famiglia di origine.

Il primo approccio un po’ prolungato con la neve è stato quello avuto durante il viaggio di nozze, a Viola S.Gree (CN); vacanze che si erano concluse anzitempo perché una tormenta di neve ci stava seppellendo in casa e poiché né io né MariaTeresa avevamo macchina e patente, scappammo di tutta fretta, scavalcano comicamente cumuli di neve davanti all’ingresso della casa che ci ospitava. Comunque anche in quell’occasione di sciare non se ne parlava nemmeno per scherzo.

Poi man mano che i figli venivano iniziati alla pratica dello sci, anche a me è venuta voglia di provare; parliamo di non più di otto anni fa in Val Ferret.
Nonostante qualche lezione con un maestro, rimango un principiante il cui primo obiettivo è “non cadere”.
L’acquisto degli sci ha così un valore simbolico, come se esprimessi pubblicamente un cambiamento, una dichiarazione d’intenti per il futuro (scierò fino a settant’anni ed oltre), un’appartenenza al popolo dell’alternato e del pattinato.
In questi giorni di vacanza sulla neve mi sono applicato con passione per capire il meccanismo dei movimenti delle gambe, per ripassare e riprovare decine di volte come si scende a spazzaneve, e a semi-spazzaneve.
Gli amici che erano insieme a me, hanno passato il tempo a prendersi gioco del mio auto-incitamento che avevo necessità di esprimere ad alta voce.
Sì, perché ogni volta che mi trovavo davanti una discesa con pendenza troppo accentuata, combattevo la paura di volare in aria incoraggiandomi:
Dai, dai dai! Ci sei! Ce la fai! E’ fatta!

Il metodo ha funzionato e mi permetteva di superare quei pochi secondi di apnea.
Sai che ora lo estendo alla vita di tutti i giorni?